Fase tre. Finalizzazione.
La terza fase di lavoro ci ha permesso di tirare le somme. Da una parte la riflessione sul percorso fatto e una sua ricostruzione teorica; dall’altra la presentazione della ricerca in forme diverse quasi assumibili al concetto di opera.

Le terre estreme, nella fattispecie il Capo di Leuca, sono, come dice Valentino, pescatore intervistato da Riccardo e Carolina nella preparazione del loro radio documentario, a seconda di dove le si guarda punto ultimo e punto primo. Le terre estreme sono materia complessa e forse assomigliano di più ad una terra di passaggio, nel caso specifico al centro del Mediterraneo, i cui confini sono molto più vasti e meno definibili di quello che appaiono ad una prima osservazione. Questa ampiezza le rende infatti terre che non si danno nell’immediato e che nella loro posizione marginale rimettono costantemente in discussione il senso comune delle cose. Sono anche luogo di resistenza, di possibilità radicali e uno straordinario laboratorio sperimentale in cui il linguaggio viene continuamente rinegoziato in una funzione tesa a creare un nuovo orizzonte, aprire finestre e produrre sconfinamenti. Le terre estreme ci costringono a riposizionarci costantemente rispetto allo spazio che occupiamo stabilendo un rapporto dialettico col territorio e chi lo vive generando così una pluralità di prospettive di significazione.

Carlos Casas[, regista e artista visivo, parla infatti dei “paesaggi estremi come luoghi dove è ancora possibile sperimentare visioni che ci permettono di ricalibrare i nostri limiti e accrescere la nostra coscienza. Luoghi capaci di registrare la nostra ignoranza aiutandoci ad ampliare le nostre capacità di comprensione del mondo”.
Se quindi consideriamo le terre estreme come strumento per se, è chiaro allora che ci troviamo nel dominio del rischio, dominio in cui è possibile operare per rotture e discontinuità.
Come già detto, sul piano strettamente metodologico, il tentativo è stato infatti quello di liberare la ricerca dal momento della produzione vera e propria non chiedendo agli artisti la realizzazione di un lavoro finale – se non il contributo per la realizzazione di un libro – formalmente risolto. Questo spazio di libertà ha paradossalmente generato una sorta di inciampo e, quella che avrebbe dovuto essere solo la presentazione della ricerca nel suo statuto discorsivo fin dove era giunta, si è trasformata nella presentazione di oggetti (se non proprio opere) dai contorni certamente più definiti e potenzialmente generativi di ulteriori possibilità.

Riccardo Giacconi e Carolina Valencia Caicedo hanno infatti riconosciuto nel Capo di Leuca la possibilità di continuare la loro ricerca a lungo-termine sui paesaggi sonori e le testimonianze orali di specifiche comunità realizzando la prima parte di un radio documentario dal titolo Scarcagnuli[. Radio documentario presentato sia in forma di “cinema senza immagini”, sia come una sorta di appuntamento “radiofonico” trasmesso tutti i giorni per circa trenta minuti alla stessa ora presso il Bar 2000.

Riccardo Giacconi + Carolina Valencia Caicedo, Scarcagnuli, Bar 2000
Con OLGA (Outdoor Lab for Gathering the Absence), Lia ha lavorato sul tema della memoria facendo leva su ciò che si è dimenticato anziché sulle informazioni che sono resistite al tempo. Gagliano del Capo è infatti un paese con un forte passato migratorio che ha visto le precedenti generazioni trasferirsi altrove per cercare fortuna e allontanarsi da un presente che lo indica come meta turistica e luogo di passaggio. Partendo da questa identità transitoria, Lia ha lavorato sui concetti di assenza, perdita e quindi sulla ricostruzione dei ricordi.
Entrambe i lavori sono riusciti a definire un campo di relazione che si è delineata come mezzo e non come fine facendo sì che l’opera, poiché liberata da un’attività creativa non finalizzata, mettesse in rilievo la dimensione problematica dei processi nella loro complessità.


Lia Cecchin, OLGA (Outdoor Lab for Gathering the Absence), Identikit
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